A proposito di Piazza Dante

Su Piazza Dante la polemica è forte e aggiungo il dissenso diffuso nella popolazione. La cifra. ribadisco, è assurda: 1,4 milioni per una piccola piazza. Per lasciare “el siglo” di un’Amministrazione, forse si può usare maggiore buon senso.

A proposito di temi urbanistici, ricevo da Roberto e volentieri pubblico:

Il distacco tra l’originario nucleo varazzino (borgo) e il levante del Teiro non è una piazza; non lo è mai stata. E’ un distacco.
Osserviamola bene Varazze.

Il suo paesaggio è immagine di una complessità che, da una parte è testimonianza storica e testimonianza di importanti tradizioni passate, dall’altra è costretta a far fronte a finti bisogni di un territorio in continua trasformazione dove la speculazione edilizia la fa da padrone da anni.

Varazze non si potrà mai sottrarre alla tradizionale interpretazione del concetto di luogo di “bel posto” in quanto trasmette significati di appartenenza e radicamento a cui, si sovrappongono ora nuove caratteristiche dovute ad una forzata flessibilità di funzioni, indeterminatezza di mutamenti, che spazialmente si vogliono insinuare, anzi si sono ormai insinuati a gamba tesa, traducendosi come oggetti caduti a pioggia, in poco tempo, su millenni di storia. C’è molto da recuperare, valorizzare e restaurare; poco o nulla da inventare; né piazze, ne vie, ne lungomare, ne abitudini, né tradizioni, ne i “venerdì neri”, ne le “zucche appese ovunque” ostentate scimmiottando, con inguardabili abiti neri, un impropria anticipata di carnevalizzaione sociale. Il 17 di gennaio è un sogno perso e la pentolaccia è rimasta quella antiaderente che nessuna getta anche se mangi veleno.

Varazze non è una città, è paese ed è un prodotto di grandi bellezze che interessano tutti i 50 kmq del suo territorio e non solo 5 o 6 chilometri del fronte mare.

Borgo, borghetto, mattoni millenari “a vista” nelle volte del centro storico e delle osterie del centro cittadino, offrono scenari che, a prima vista, possono sfuggire; provate ad andare i “nu Maxelli” ed entrate a bere un gotto; alzate lo sguardo sulle volte e sulle pareti dove, le volte, pare nascano.

Benché antiche, assolvono alla loro funzione e, laddove mantenute tali e quali, noterete comunque alterazioni di ciò che preesisteva: archi, finestre, spalline ed ancora mattoni fatti a mano. Residuati di murature e che danno prova di quanto fosse diverso quell’antico contesto… Persino i livelli dei piano di quelle vecchie case e le quote delle medioevali strade interposte. Ma sono ancora lì e oggi si possono ancora “leggere”.

C’è bisogno assoluto di conservare tutto ciò e non solo quegli edifici con una tradizione documentata; con l’evoluzione del pensiero progettuale si è capito che ogni manufatto racconta una storia e possiede delle particolarità intrinseche che lo rendono unico.
Troppe alterazioni sono state messe in atto. Bisogna ripartire da concetti cardine: il restauro conservativo. Con il restauro ogni traccia è un segno da tramandare e degna del recupero progettuale, che lascia la libertà di integrare con segni contemporanei un manufatto storico. Ma nel mezzo esistono diverse metodologie di approccio alla problematica della conservazione e riutilizzo del patrimonio esistente.

Non bisogna, in ogni caso, perdere l‘identità storica dell’edificio, delle vie, delle piazze e delle loro funzioni e destinazioni d’uso. Le piazze hanno una funzione ben precisa che non si può inventare con artifici geometrici messi in atto da quelli che “voglio passare alla storia” scopiazzando “fuori squadra” clonati chissà dove e perché. Vivere la città significa riorganizzarla e renderla aggiornata per la sua miglior fruizione e per l’uso degli spazi costruiti … Costruiti nella storia e per la storia. Significa tramandare il sapere progettuale in una sorta di eco-progettualità che diminuisce l’impatto delle nuove costruzioni, al fine di dare nuove vesti e nuovi contenuti all’esistente. Non basta recuperare, prevedendo di essere in presenza di un’architettura ormai fatiscente o abbandonata all’incuria a cui ridare vita e destinazione d’uso atemporale, ma si deve ricorrere al restauro quale operazione molto più complessa che prevede una grande preparazione storico-documentaria e si muove in “punta di cesello”, al fine di evitare lo snaturamento del contesto su cui si interviene. Qui entrano in gioco, ad esempio le piazze come luogo fondamentale dell’incontro e dello scambio, in cui si sono intrecciate e si intrecciano cultura e storia, simboli e tradizioni. Il centro storico delle città di Varazze indica con tutta evidenza l’importanza della piazza quale centro vitale della città, sorta di palcoscenico dell’identità e del senso di appartenenza di una comunità, che permette la manifestazione quotidiana della collettività nelle sue più svariate forme e rappresentazioni sociali, religiose, tradizionali. Le piazze varazzine, dunque, hanno una loro precisa e inconfondibile connotazione e si propongono come una inesauribile rappresentazione di quelle che era la vita en plein air quotidiana alternata ed interrotta da quella messa in scena “teatrale” concepita per accogliere la folla delle feste, dei mercati, delle celebrazioni religiose.

Ma non tutte le piazze varazzine hanno questa caratteristica; molte sono solo spazi aperti di connessione tra diversi originari tessuti edificati che nulla hanno a che vedere con il ruolo e la funzione storica descritta prima. La dimensione “chiusa” della piazza classica risulta decisiva per l’evoluzione successiva dell’assetto urbanistico della città: la piazza deve rimanere, rispetto al resto della cittadina, uno spazio pubblico privilegiato, separato e distinto, portatore di significati e funzioni peculiari e per questo senso collettivo dello spazio pubblico si tramanderà ancora nei secoli come una sorta di “patrimonio genetico. Uno slargo nato per altre ragioni, mai potrà essere “piazza” e a nulla serve snaturarlo o truccarlo come una bella signora; provate a immaginare piazzale C.A. Dalla Chiesa, Viale Nazioni Unite, Piazza Dante, Piazza De Andre’… la stessa piazza Vittorio Veneto non è una “piazza”… lì ci giravano i “Lazzi” e non vi erano relazione e scambi tipici delle piazze. Dai Carbini nessuno trovate a parlare…a giocare.

Non è quindi necessario né utile creare delle piazze quasi “virtuali” ed è meglio non affiancarle a quelle “reali” rischiando di sopravanzarle; lasciamo che le “piazze virtuali” restino dove oggi le abbiamo volute: nelle rete, dei blog, nei social e ancora prima della televisione. Tutti impropri luoghi divenuti pubblici quasi per eccellenza, incontrollati e senza confini, ma al contempo luogo privato ed alienante, in cui l’incontro e il confronto tra le persone è come filtrato e stemperato dalla “freddezza” del mezzo di comunicazione con le mega faccine che ridono, che piangono…, i like, l’anonimato e il peggio del peggio. Analizziamo l’impianto della città e riflettiamo. Guardiamo la mappa di Varazze della fine settecento e immaginiamo di viverla, di passegiare lì. Vedrete che disatro.

Siamo vicini all’avverarsi della profezia di architetti, urbanisti e storici delle città circa la terribile “morte della piazza”, a seguito di una modernizzazione tumultuosa, casuale schizofrenica che ha trasformato tante piazze in anonime aree vacue di appartenenza come quelle degli Outlet dove, un minuto dopo esserci in mezzo, ti nascono terribili crisi nevrotiche perché perdi ogni riferimento anche geometrico.

Mettiamo al bando questa forzata modernità o post-modernità che tende a mettere in discussione la memoria e la storia, il vissuto collettivo che contraddistingue questa meravigliosa cittadina che ha marcato il corso della storia. San Donato, Campo Marzio, Jacopo da Varagine, Santa Caterina da Siena…
Questo vissuto si è manifestato non solo in senso prettamente “politico”, ma anche e prima di tutto come vita quotidiana, socialità all’aria aperta, scena dello scambio interpersonale e delle identità individuali e collettive, che tuttora ci deve circondare e ci deve ancora impregnare. Un bicchiere bevuto sotto ai portici è rosolio rispetto a quello bevuto nel moderno centro commerciale… perchè è facile incontrare un varazzino, un amico, uno a cui lo offri e uno che te lo offre e così succede in via Ciarli, in Via Gavarone, in Via C. Battisti…

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